Replying to La delinquenza minorile nelle organizzazioni mafiose

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  1. Posted 2/6/2021, 18:00


    La devianza minorile criminale rappresenta un fenomeno che, sempre più frequentemente, si tramanda all’interno di nuclei familiari contigui a contesti mafiosi, a causa di una educazione fondata sulla trasgressione delle regole del vivere civile e sulla divulgazione della cultura mafiosa di generazione in generazione.
    Ciò premesso, è possibile cogliere l’efficacia di un intervento statuale in tali contesti, sottoforma di un provvedimento giurisdizionale de potestate, che sarebbe idoneo, da una parte, ad aggredire, seppur di riflesso, le strutture mafiose dal punto di vista delle risorse umane, impedendo, a monte, che vi siano i presupposti per una rigenerazione del fenomeno mafioso, dall’altra, di tutelare i minori appartenenti alle famiglie mafiose, i quali, rappresentano le prime vittime dei sodalizi criminali, spesso subendo, in prima persona, un grave pregiudizio al loro patrimonio morale, in quanto condizionati negativamente dal crescere all’interno di contesti familiari in cui la sopraffazione, la violenza, il perseguimento del potere ad ogni costo, rappresentano dei (dis)valori da tramandare di generazione in generazione. È innegabile, infatti, che, in alcuni ambienti criminali, sia fondamentale la componente familiare che, sovente, implica il coinvolgimento di figli minorenni all’interno delle attività criminose. Famiglie, in cui la cultura mafiosa viene tramandata per assicurare un continuum criminale che impedisce di liberarsi dall’ingombrante ombra familiare o di collaborare con le forze dell’ordine.
    Si tratta di microcosmi connotati dalla divulgazione della mentalità mafiosa a cui i minori vengono abituati ed educati sin da piccoli. Minori, che fin dall’infanzia sono abituati a concepire lo Stato come nemico, uno Stato rappresentato nella sua veste esclusiva di stampo repressivo. Uno Stato concepito, a sua volta, come il“mostro”che arresta e condanna i genitori o che impedisce di esercitare ai propri familiari delle attività illecite che rappresentano, tuttavia, nell’ottica del minore, l’unica fonte di sostentamento dei bisogni familiari. Ed è proprio in assenza della componente maschile, spesso attinta da provvedimenti coercitivi, che è sempre più la donna ad assumere le redini della famiglia-criminale: donne, che non disdegnano di gestire, in assenza dei propri mariti, gli affari criminosi di famiglia, con grande lucidità ma anche con spiccata durezza. Da ciò, si comprende come in taluni contesti familiari sia proprio la donna, rappresentata da una madre, da una zia, da una nonna, a costituire la cerniera tra i minori ed il sodalizio criminale. La famiglia rappresenta pertanto l’humus in cui i figli di mafia , sin dall’infanzia,vengono indottrinati a concetti come la vendetta, la violenza, le faide familiari .
    Per comprendere e contrastare le mafie, è, pertanto, necessario analizzare e prevenire la cultura mafiosa con cui, spesso, i bambini appartenenti a famiglie malavitose, sono portati ad annullare i propri sentimenti , a trasgredire le regole, a concepire l’appartenenza ad una famiglia mafiosa come motivo di vanto, specie nei rapporti relazionali con i loro coetanei, che, a loro volta vedranno in quel compagno di classe, in quell’amichetto, un punto di riferimento, un’amicizia di cui andare fieri. Si tratta di bambini e di ragazzi che ambiscono a diventare boss pur nella “consapevolezza” di andare incontro alla morte o al carcere.
    Tuttavia, non si tratta di ambizioni pienamente consapevoli, in quanto rappresentano solo l’esito di una inconscia recezione di valori antisociali derivanti da una diseducazione familiare che ha impedito loro di poter scegliere “liberamente” il proprio percorso di vita. Per questi ragazzi sarà difficile se non impossibile, in concreto, progettare o decidere di intraprendere un’attività lavorativa lecita in quanto, per loro, la strada sembra già scritta: una strada senza alternative, in cui ciò che per la società costituisce un fenomeno da rigettare, per loro rappresenta l’unica normalità perseguibile. Pertanto, poiché tale mentalità mafiosa si tramanda di generazione in generazione, l’unico modo per consentire a tali minori di avere una effettiva e concreta libertà di scegliere è quello rappresentato da un intervento dello Stato finalizzato al sostegno del corretto sviluppo psicofisico del minore mediante l’interruzione della catena criminosa familiare e di porre, così, in seria difficoltà le strutture mafiose che, sempre più frequentemente, ricercano nuovi adolescenti da reclutare ed inglobare nel proprio “sistema”. Ragazzi attratti dall’idea del rispetto guadagnato con la sola violenza, dall’accumulo quotidiano di denaro, dal farsi rapidamente una famiglia a cui tramandare, a loro volta, i valori antisociali inculcati dai propri genitori, in una spirale senza fine.
    Tuttavia, poiché la validità di una norma e di un provvedimento giuridico non può sganciarsi dalla sua effettività e dalla sua efficacia nella realtà sociale, è necessario analizzare e differenziare i contesti sociali, economici, territoriali, familiari e criminosi in cui tali provvedimenti andranno applicati.
    Non può, infatti, negarsi che la ‘ndrangheta e la mafia rappresentino dei fenomeni criminosi che, specie dal punto di vista strutturale, presentino delle peculiari connotazioni: un forte e frequente ricorso ai rituali di iniziazione dei nuovi affiliati, spesso connotati da sfumature pseudo religiose, volti a verificare e ad attestare l’idoneità del nuovo (giovane) adepto ad entrare a far parte dell’organizzazione criminosa; al contempo, un’organizzazione ben strutturata, di stampo gerarchico, ramificata in diversi territori, ma pur sempre riconducibile ad un unico fulcro: la Calabria o la Sicilia.Nel primo ambito, assumono rilevanza fondamentale le “ndrine”, una sorta di famiglia allargata che rappresenta un modulo organizzativo formidabile per assicurare un continuum familiare fondato sulla lealtà e fedeltà ai propri consodali ed in cui, la devianza dai vincoli familiari e dai rispettivi valori antisociali, viene punita anche con la morte.
    Diversamente, nella realtà partenopea, si assiste ad un fenomeno differente: minori inseriti in organizzazioni criminali con compiti di manovalanza (vedette e/o pusher di associazioni finalizzate al traffico e cessione di sostanze stupefacenti, operanti su piazze di spaccio sia fisiche, aperte senza soluzioni di continuità, che itineranti tramite l’uso dei social network o impiegati in efferate attività delittuose, tra cui rapine, estorsioni e delitti contro la persona volti ad agevolare l’affermazione violenta sul territorio del sodalizio criminale) oppure minori con ruoli di primo piano come nel caso denominato, ormai, con l’espressione “paranza dei bambini”: un cartello composto da giovanissimi adolescenti appartenenti o discendenti dalle tradizionali famiglie malavitose napoletane che, sfruttando l’assenza dei vecchi boss, ora detenuti, ora uccisi, tentano, quotidianamente, di affermarsi all’interno dei propri quartieri attraverso un uso esibizionistico della forza, spesso sfociato in stese (sparatorie intimidatorie), ovvero manifestazioni di forza compiute con delle metodologie e delle finalità assimilabili a quelle terroristiche. La finalità di intimidire la popolazione e gli imprenditori locali, di scacciare le vecchie famiglie malavitose, di sfidare lo Stato compiendo sparatorie nelle prossime adiacenze di luoghi istituzionali. Trattasi di ragazzi che, spesso sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti, si rendono colpevoli di fatti di grande allarme sociale: omicidi, estorsioni, delitti legati al traffico di stupefacenti, riconducibili a contesti associativi, spesso a carattere familiare.
    Ciò che infatti caratterizza il fenomeno camorristico rispetto alle altre mafie, è rappresentato da una progressiva fluidità e da un incessante magmatismo che è dovuto all’assenza di strutture rigide, di particolari riti di iniziazione e di selezione. A differenza dei clan casertani, infatti, nella realtà partenopea, salvo casi eccezionali, per entrare a far parte del sistema è sufficiente che il ragazzino si presenti quale figlio, nipote, cugino, parente di un personaggio affidabile. L’assenza di stringenti requisiti di carattere selettivo, rischiano quindi di agevolare e sollecitare un intenso afflusso di minori all’interno del circuito criminoso. Ciò a cui si assiste, ormai, a Napoli, è uno scolorimento del confine tra micro e macro criminalità: spesso, ma non sempre, i giovanissimi componenti delle Baby gang,che, specie nel weekend, imperversano per le strade della città, con intenti delittuosi, provengono da famiglie con pregiudizi penali. È tuttavia necessario distinguere tra il fenomeno, seppur allarmante, delle baby-gang da quello della adesione dei minori a sodalizi criminali nelle forme sopra evidenziate .
    Nel primo caso, si tratta di adolescenti, i quali,una volta raggiunte le zone borghesi della città, con fare di sfida, realizzano reati per lo più di impeto sia contro il patrimonio che contro la persona, sfruttando, in chiave intimidatrice, la forza derivante dall’essere parte di un branco. Diversamente, nel secondo caso si assiste alla intraneità del minore nelle dinamiche criminali dell’organizzazione camorristica sino alla formazione di veri e propri cartelli composti da giovanissimi che sono succeduti ai propri ascendenti nella direzione e gestione dei traffici familiari, ponendo in essere una vera lotta generazionale contro gli esponenti dei clan storici. Da ciò emerge, che, seppur per cause differenti, anche in Campania, la riproduzione culturale e generazionale della Camorra all’interno di contesti familiari, ha assicurato ed assicura, tuttora, una irrefrenabile riproduzione organizzativa.
    La devianza minorile criminale rappresenta un fenomeno che, sempre più frequentemente, si tramanda all’interno di nuclei familiari contigui a contesti mafiosi, a causa di una educazione fondata sulla trasgressione delle regole del vivere civile e sulla divulgazione della cultura mafiosa di generazione in generazione.
    Ciò premesso, è possibile cogliere l’efficacia di un intervento statuale in tali contesti, sottoforma di un provvedimento giurisdizionale de potestate, che sarebbe idoneo, da una parte, ad aggredire, seppur di riflesso, le strutture mafiose dal punto di vista delle risorse umane, impedendo, a monte, che vi siano i presupposti per una rigenerazione del fenomeno mafioso, dall’altra, di tutelare i minori appartenenti alle famiglie mafiose, i quali, rappresentano le prime vittime dei sodalizi criminali, spesso subendo, in prima persona, un grave pregiudizio al loro patrimonio morale, in quanto condizionati negativamente dal crescere all’interno di contesti familiari in cui la sopraffazione, la violenza, il perseguimento del potere ad ogni costo, rappresentano dei (dis)valori da tramandare di generazione in generazione. È innegabile, infatti, che, in alcuni ambienti criminali, sia fondamentale la componente familiare che, sovente, implica il coinvolgimento di figli minorenni all’interno delle attività criminose. Famiglie, in cui la cultura mafiosa viene tramandata per assicurare un continuum criminale che impedisce di liberarsi dall’ingombrante ombra familiare o di collaborare con le forze dell’ordine.
    Si tratta di microcosmi connotati dalla divulgazione della mentalità mafiosa a cui i minori vengono abituati ed educati sin da piccoli. Minori, che fin dall’infanzia sono abituati a concepire lo Stato come nemico, uno Stato rappresentato nella sua veste esclusiva di stampo repressivo. Uno Stato concepito, a sua volta, come il“mostro”che arresta e condanna i genitori o che impedisce di esercitare ai propri familiari delle attività illecite che rappresentano, tuttavia, nell’ottica del minore, l’unica fonte di sostentamento dei bisogni familiari. Ed è proprio in assenza della componente maschile, spesso attinta da provvedimenti coercitivi, che è sempre più la donna ad assumere le redini della famiglia-criminale: donne, che non disdegnano di gestire, in assenza dei propri mariti, gli affari criminosi di famiglia, con grande lucidità ma anche con spiccata durezza. Da ciò, si comprende come in taluni contesti familiari sia proprio la donna, rappresentata da una madre, da una zia, da una nonna, a costituire la cerniera tra i minori ed il sodalizio criminale. La famiglia rappresenta pertanto l’humus in cui i figli di mafia , sin dall’infanzia,vengono indottrinati a concetti come la vendetta, la violenza, le faide familiari .
    Per comprendere e contrastare le mafie, è, pertanto, necessario analizzare e prevenire la cultura mafiosa con cui, spesso, i bambini appartenenti a famiglie malavitose, sono portati ad annullare i propri sentimenti , a trasgredire le regole, a concepire l’appartenenza ad una famiglia mafiosa come motivo di vanto, specie nei rapporti relazionali con i loro coetanei, che, a loro volta vedranno in quel compagno di classe, in quell’amichetto, un punto di riferimento, un’amicizia di cui andare fieri. Si tratta di bambini e di ragazzi che ambiscono a diventare boss pur nella “consapevolezza” di andare incontro alla morte o al carcere.
    Tuttavia, non si tratta di ambizioni pienamente consapevoli, in quanto rappresentano solo l’esito di una inconscia recezione di valori antisociali derivanti da una diseducazione familiare che ha impedito loro di poter scegliere “liberamente” il proprio percorso di vita. Per questi ragazzi sarà difficile se non impossibile, in concreto, progettare o decidere di intraprendere un’attività lavorativa lecita in quanto, per loro, la strada sembra già scritta: una strada senza alternative, in cui ciò che per la società costituisce un fenomeno da rigettare, per loro rappresenta l’unica normalità perseguibile. Pertanto, poiché tale mentalità mafiosa si tramanda di generazione in generazione, l’unico modo per consentire a tali minori di avere una effettiva e concreta libertà di scegliere è quello rappresentato da un intervento dello Stato finalizzato al sostegno del corretto sviluppo psicofisico del minore mediante l’interruzione della catena criminosa familiare e di porre, così, in seria difficoltà le strutture mafiose che, sempre più frequentemente, ricercano nuovi adolescenti da reclutare ed inglobare nel proprio “sistema”. Ragazzi attratti dall’idea del rispetto guadagnato con la sola violenza, dall’accumulo quotidiano di denaro, dal farsi rapidamente una famiglia a cui tramandare, a loro volta, i valori antisociali inculcati dai propri genitori, in una spirale senza fine.
    Tuttavia, poiché la validità di una norma e di un provvedimento giuridico non può sganciarsi dalla sua effettività e dalla sua efficacia nella realtà sociale, è necessario analizzare e differenziare i contesti sociali, economici, territoriali, familiari e criminosi in cui tali provvedimenti andranno applicati.
    Non può, infatti, negarsi che la ‘ndrangheta e la mafia rappresentino dei fenomeni criminosi che, specie dal punto di vista strutturale, presentino delle peculiari connotazioni: un forte e frequente ricorso ai rituali di iniziazione dei nuovi affiliati, spesso connotati da sfumature pseudo religiose, volti a verificare e ad attestare l’idoneità del nuovo (giovane) adepto ad entrare a far parte dell’organizzazione criminosa; al contempo, un’organizzazione ben strutturata, di stampo gerarchico, ramificata in diversi territori, ma pur sempre riconducibile ad un unico fulcro: la Calabria o la Sicilia.Nel primo ambito, assumono rilevanza fondamentale le “ndrine”, una sorta di famiglia allargata che rappresenta un modulo organizzativo formidabile per assicurare un continuum familiare fondato sulla lealtà e fedeltà ai propri consodali ed in cui, la devianza dai vincoli familiari e dai rispettivi valori antisociali, viene punita anche con la morte.
    Diversamente, nella realtà partenopea, si assiste ad un fenomeno differente: minori inseriti in organizzazioni criminali con compiti di manovalanza (vedette e/o pusher di associazioni finalizzate al traffico e cessione di sostanze stupefacenti, operanti su piazze di spaccio sia fisiche, aperte senza soluzioni di continuità, che itineranti tramite l’uso dei social network o impiegati in efferate attività delittuose, tra cui rapine, estorsioni e delitti contro la persona volti ad agevolare l’affermazione violenta sul territorio del sodalizio criminale) oppure minori con ruoli di primo piano come nel caso denominato, ormai, con l’espressione “paranza dei bambini”: un cartello composto da giovanissimi adolescenti appartenenti o discendenti dalle tradizionali famiglie malavitose napoletane che, sfruttando l’assenza dei vecchi boss, ora detenuti, ora uccisi, tentano, quotidianamente, di affermarsi all’interno dei propri quartieri attraverso un uso esibizionistico della forza, spesso sfociato in stese (sparatorie intimidatorie), ovvero manifestazioni di forza compiute con delle metodologie e delle finalità assimilabili a quelle terroristiche. La finalità di intimidire la popolazione e gli imprenditori locali, di scacciare le vecchie famiglie malavitose, di sfidare lo Stato compiendo sparatorie nelle prossime adiacenze di luoghi istituzionali. Trattasi di ragazzi che, spesso sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti, si rendono colpevoli di fatti di grande allarme sociale: omicidi, estorsioni, delitti legati al traffico di stupefacenti, riconducibili a contesti associativi, spesso a carattere familiare.
    Ciò che infatti caratterizza il fenomeno camorristico rispetto alle altre mafie, è rappresentato da una progressiva fluidità e da un incessante magmatismo che è dovuto all’assenza di strutture rigide, di particolari riti di iniziazione e di selezione. A differenza dei clan casertani, infatti, nella realtà partenopea, salvo casi eccezionali, per entrare a far parte del sistema è sufficiente che il ragazzino si presenti quale figlio, nipote, cugino, parente di un personaggio affidabile. L’assenza di stringenti requisiti di carattere selettivo, rischiano quindi di agevolare e sollecitare un intenso afflusso di minori all’interno del circuito criminoso. Ciò a cui si assiste, ormai, a Napoli, è uno scolorimento del confine tra micro e macro criminalità: spesso, ma non sempre, i giovanissimi componenti delle Baby gang,che, specie nel weekend, imperversano per le strade della città, con intenti delittuosi, provengono da famiglie con pregiudizi penali. È tuttavia necessario distinguere tra il fenomeno, seppur allarmante, delle baby-gang da quello della adesione dei minori a sodalizi criminali nelle forme sopra evidenziate .
    Nel primo caso, si tratta di adolescenti, i quali,una volta raggiunte le zone borghesi della città, con fare di sfida, realizzano reati per lo più di impeto sia contro il patrimonio che contro la persona, sfruttando, in chiave intimidatrice, la forza derivante dall’essere parte di un branco. Diversamente, nel secondo caso si assiste alla intraneità del minore nelle dinamiche criminali dell’organizzazione camorristica sino alla formazione di veri e propri cartelli composti da giovanissimi che sono succeduti ai propri ascendenti nella direzione e gestione dei traffici familiari, ponendo in essere una vera lotta generazionale contro gli esponenti dei clan storici. Da ciò emerge, che, seppur per cause differenti, anche in Campania, la riproduzione culturale e generazionale della Camorra all’interno di contesti familiari, ha assicurato ed assicura, tuttora, una irrefrenabile riproduzione organizzativa.

    (ERIKA CIERI - Avvocato)

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